In questo scritto, per il Gruppo di Lettura della Biblioteca Sant’Ambrogio di Milano, mi riferisco in specifico ai premi letterari italiani, cioè a quelli che ammettono opere in lingua italiana e scritte da autori italiani, come lo Strega, il Viareggio e il Campiello. Questi, anche se nati da gruppi di letterati e intellettuali, sono stati fortemente sostenuti e voluti dagli editori. Ciò sta a riprova che i Premi letterari sono un anello, un elemento di congiunzione tra gli autori e gli editori, attori che formano quel complesso sistema, basato sulla produzione intrinseca del libro, oggetto concreto, la cui forma artistica è il testo. A partire dal secondo dopoguerra, i Premi letterari diventano una passerella per gli autori e uno strumento di propaganda per gli editori, che sono sempre a caccia di nomi nuovi, di esordienti capaci di intercettare i gusti del pubblico. Negli anni cinquanta e sessanta, nel nostro Paese, possedere i volumi che hanno vinto uno dei premi più prestigiosi diventa un simbolo di identificazione per le nuove fasce di lettori, che aumentano decisamente grazie al boom economico e che fanno dei loro salotti pieni di libri un segno di riconoscimento della loro appartenenza all’emergente ceto borghese. Gli editori guardano perciò con interesse verso i Premi e promuovono pagine di recensioni a loro dedicate, non solo sulle riviste specializzate, ma sui quotidiani e sui rotocalchi, al fine di aumentare le vendite dei libri. Anche grazie alla spinta di queste iniziative nascono dei successi editoriali come La Ragazza di Bube di Carlo Cassola (Einaudi. Vincitore del Premio Strega 1960) o Questa specie d’amore di Alberto Bevilacqua (Rizzoli. Vincitore del Premio Campiello 1966). Abbiamo visto, quindi, come i premi letterari facciano parte del costume della nostra società e così è anche per il Premio Strega.